20 giugno 2010

Volver

Ho un sogno ricorrente.

Non è proprio eccitante perché quando mi sveglio sento addosso un senso di stress e di frustrazione. E' un genere di sogno che ti rovina la domenica, non è per niente raccomandabile in un giorno feriale quando la notte serve a ricaricarti le pile.

Il sogno è questo. Per non si sa per quale ragione devo tornare all'università per un altro anno. Mi ritrovo così seduto in un banco di legno di un'aula a gradoni circondato dai vecchi compagni (che sono tutti stimati professionisti) ad ascoltare la lezione di un professore. L'atmosfera nel sogno è distesa, rilassata, ora siamo adulti e laureati. I professori non possono sfotterci. Ci danno del tu perché ci considerano quasi loro pari e non del “lei” per prenderci per il culo come all'epoca: “Venga lei alla lavagna che ha l'aria di non capirci molto”.
Insomma nel sogno seguo la lezione, prendo appunti, mi informo sulle novità dei miei compagni di corso rendendomi conto che da cinque anni non ci scambiamo piu'nemmeno un messaggio.



Poi il sogno comincia a farsi teso perché capisco che tutti hanno trovato il loro cammino, sono specialisti nel loro settore mentre io ho semplicemente vagato. Naturalmente i miei vagabondaggi sono epici rispetto alle vite grigie di chi ha raggiunto il successo. Però mi sento fortemente inadeguato alla situazione come certi dipendenti di hard discount che muovono casse tutto il giorno, aprono scatoloni con la taglierina, corrono alle casse, per poi sentirsi dire che non hanno fatto praticamente nulla, che la loro produttività oraria è bassa.

Nel sogno è previsto l'esame finale. Una specie di formalità su un argomento che qualsiasi professionista dovrebbe padroneggiare. Quando arriva il mio turno, l'amichevole professore mi invita a sedermi, mi chiede della mia vita, di come sto e mi propone di toglierci di mezzo la formalità dell'esame. Due o tre domandine.
Bene, le domandine sono difficili. Cose che non so. Decreti legge che nessuno conosce né tanto meno rispetta. Cerco di destreggiarmi, di raccontare qualcosa. Cerco di far passare il messaggio: “Vecchio, io non so un cazzo, però è una formalità, chiudiamola qua”. Però il professore amabilmente continua a sollecitare maggiori dettagli alla mia risposta.

Allora vado nel panico e mi sveglio.

Qualcosa del genere è successo quando dopo otto anni sono tornato nella valle di Målselv. Come allora ho dovuto farmi umile, ringraziare per la stanza messami a disposizione e per la magnifica opportunità di lavoro. Atmosfera distesa e amichevole.
Fuori lo stesso paesaggio, le catene montuose, la valle, i boschi, il fiume, il negozio di alimentari a dieci chilometri. Eppure aleggia una domanda. “Non dovresti essere a fare qualcos'altro?”

Durante l'estate 2002, avevo ventidue anni, ho trascorso tre mesi qui lavorando come boscaiolo. Il mio compito è stato quello di diradare una fustaia di pino silvestre e mettere a dimora qualche migliaia di abeti per destinati a diventare alberi di Natale. Un'impresa eccezionale. Il "Nye Troms", il quotidiano locale titolò “Italiano viene qui ad imparare l'uso della motosega”. “L'Arena” il quotidiano di Verona mi dedicò addirittura metà pagina. Non impressionatevi. Durante l'estate pubblicano sempre reportage del genere; un architetto che va a fare il mandriano o un avvocato che diventa guardiano del faro. Agli occhi dei lettori sembrano avventure epiche.

Dopo l'uscita degli articoli ricevetti diverse e-mail. La vita prometteva bene come la parte introduttiva del film “Full Monty”
Ora di anni ne ho trenta. Un'amica del Belgio mi ha detto: “Tu fai un passo indietro per farne uno in avanti”.

Chi viaggia lo fa per due ragioni. Sta cercando qualcosa o sta fuggendo da qualcosa.

Oppure ha trovato un'offerta last minute eccezionale.

1 commento:

  1. "..Poi il sogno comincia a farsi teso perché capisco che tutti hanno trovato il loro cammino, .. mentre io ho semplicemente vagato"

    Tasso nella Gerusalemme Liberata mette meravigliosamente in scena la dimensione dell' "erranza", che non è solo un "vagare" fisicamente lontano dalla meta, ma soprattutto un' erranza morale, una dispersione che deriva dal richiamo del piacere, dalla voglia di avventura, dalla parte irascibile e concupiscibile dell' anima, che porta lontano, oltre le colonne d' Ercole del mondo conosciuto, quotidiano, normale, convenzionale.

    Ed è proprio questa dimensione dell' erranza che rende bellissimo il poema di Tasso , così come i viaggi, la curiosità e la meraviglia rendono piena la vita.

    Caminante, son tus huellas el camino, nada mas;
    caminante, no hay camino, se hace camino al andar.
    Al andar se hace camino, y al volver la vista atras
    se ve la sanda que nunca se ha volver a pisar.
    Caminante, no hay camino,
    sino estelas en la mar.

    RispondiElimina